Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici di sessione, con la sola finalità di permettere la normale navigazione delle pagine web. Non vengono utilizzati cookie di profilazione o tracciamento. Informativa Cookie

Domenica, 22 Dicembre 2024

Impostazioni di visualizzazione: 


www.gabrieleortu.it – Copyright © Gabriele Ortu, tutti i diritti riservati

Manolo

Sono a Rio da quattro giorni. Abbiamo già visitato tutto ciò che la “visita organizzata” aveva previsto.

È domenica. La giornata è libera. Ognuno ne dispone a suo piacimento.

Sto pensando come utilizzare il tempo libero quando una ragazza nuorese, con la quale condivido la passione per la fotografia, mi chiede di accompagnarla a fare un giro per i mercati della città.

Accetto volentieri. I mercati mi hanno sempre affascinato per i loro colori, per il vocìo dei venditori, per il caos che vi regna, per i profumi della merce esposta. I mercati mi rilassano, mi danno una pace interiore che altrove non trovo. Mi sento a mio agio. Vi sto bene. Sarà il luogo, sarà la gente, sarà la quasi totale libertà di comportamento. Al mercato nessuno si sogna di cedere il passo ad una signora davanti al bancone della merce. C’è egoismo e allo stesso tempo si socializza. Strano comportamento dell’uomo questo. Non so proprio spiegarne la ragione. Io al mercato ci sto bene, ho l’impressione di partecipare ad un grande banchetto tra amici…

Al tassista che è venuto a prenderci chiediamo di accompagnarci al mercato rionale più vicino. Ma la sua risposta ci lascia di stucco: “I mercati, oggi, sono chiusi, signori”.

Per qualche istante ci guardiamo negli occhi senza parlare mentre il taxi si allontana dall’albergo.

“Abbiamo perso il senso del tempo.” Dice Giovanna. Ed io approvo con un cenno della testa.

“Senta,” è sempre Giovanna che parla, “noi vogliamo fare delle fotografie caratteristiche sulla città. Cerchiamo dei volti e dei luoghi, come dire, un po’ insoliti. Dove ci consiglia d’andare?”

“Alla discarica dei rifiuti.” Risponde deciso il tassista.

Cerco negli occhi della mia compagna il consenso. Giovanna mi fa cenno di sì e chiede a sua volta: “È molto distante questo luogo?”

“Ci vorrà circa mezz’ora, ma io conosco una scorciatoia e ci arriveremo in soli venti minuti.”

“Va bene.” Rispondiamo entrambi.

Il tassista svolta a destra e prende per un lunghissimo viale che ci porta, in circa dieci minuti, fuori dell’abitato, o meglio dalle case fatte di cemento.

Ora, sotto i nostri occhi, solo “case” con tetti di lamiera addossate una all’altra quasi per infondersi coraggio, per difendersi a vicenda. Dappertutto panni dai colori variopinti stesi su fili o appesi a pertiche conficcate sul terreno o sporgenti dalle baracche. Ovunque scatole di cartone, di latta, barattoli, bottiglie di vetro e tante buste di plastica sfilacciate dal vento impigliate in ogni dove. E poi tanti bambini ricciuti con occhi spaventati pieni di fame e di disperazione. Su di loro i segni dell’accanimento della poliomielite.

“Qui inizia la discarica. È bene non andare oltre quelle baracche.” Ci spiega il tassista, dopo aver arrestato la macchina, facendoci cenno con la mano.

“Vi devo aspettare?”

“Certamente.” Rispondiamo.

Avanziamo tra le baracche, osservati da centinaia di occhi e attorniati da un nugolo di marmocchi che fanno a gara per farsi fotografare, per toccarci e per frugare le nostre tasche vuote. Vedo il tassista preoccupato che mi fa cenno di stare attento. Cerco di non allontanarmi dalla sua visuale di controllo anche perché i bambini aumentano sempre di più.

Sono i così detti “meninos de rua”, bambini della strada. Figli di nessuno. Non hanno genitori né parenti (o meglio sono stati abbandonati da genitori e da parenti). Molti sono figli di bambine stuprate che vivono nelle strade e si prostituiscono per un tozzo di pane, quando glielo danno, ci ha detto il tassista.

Lo stridere dei gabbiani e la puzza sono insopportabili per noi.

Sul limitare delle baracche si vedono bambini e bambine che accudiscono genitori in evidente stato confusionale perché drogati o alcolizzati. Larve umane che in qualche modo questi bambini riescono a sfamare raccattando nelle immondizie qualcosa.

Da quando siamo arrivati, uno di questi bambini mi si è attaccato addosso e non mi molla. Ha si e no quattro anni, non è né bello né brutto… Una grossa cicatrice gli attraversa la guancia destra, da sotto l’orecchio fino al mento. Nei suoi occhi, grandi ed espressivi, si legge tutta l’infelicità dei bambini abbandonati del mondo.

Ho l’impressione che assommi più tristezza di quanto ne possa contenere il suo esile e gracile corpicino. Osservandolo negli occhi, ho creduto quasi di sprofondare nel suo sguardo. Di entrare nel suo intimo. Ho avuto l’impressione che il mio corpo si srotolasse quasi dentro di lui, dentro la sua anima. Per un istante ho creduto di fotografare me stesso dall’interno di questo infelice bambino. È stata una sensazione che la penna non può descrivere e che morirà con me…

La discarica di Rio è un formicaio di derelitti, di bambini abbandonati a centinaia, ma io sono come calamitato da questo esserino che ora ha abbandonato la presa dei miei pantaloni e rovista come gli altri. Gli chiedo. “Cómo te llamas?”

“Manolo.” Mi risponde. Lo seguo. Non scambia una parola con nessuno. Si ferma incuriosito. Afferra qualcosa. Subito la lascia. Non gli interessa. Ogni tanto si volta. Forse per assicurarsi della mia presenza, anzi della nostra, poi continua la cernita.

Anch’io ogni tanto devo voltarmi e cercare lo sguardo tranquillizzante del tassista. Penso che sia un luogo veramente pericoloso per noi, oltre che tremendamente triste.

Ora vedo che il bambino fa scivolare nella sua busta di plastica qualche frutto che si è “salvato”. Ecco, ne ha trovati degli altri. Si gira e me li fa vedere con una punta di orgoglio. Sono mele. Non sono del tutto integre, ma quasi. La cernita continua. Ecco che si volta nuovamente e mostra una scatoletta di sardine sott’olio ancora intera. Forse è scaduta, penso, o forse qualche anima buona l’ha buttata di proposito nella spazzatura pensando che qualcuno di questi infelici l’avrebbe trovata. Nel mio cuore desidero fortemente che sia avvenuto proprio così. Non so perché. Forse questo pensiero mi aiuta a sollevare il senso di colpa che provo davanti a tanta miseria. Forse una giustificazione al fatto che non riesca a provare vergogna di me stesso. Vedo gli occhi di Manolo “brillare” di gioia e questo mi solleva dal peso che mi opprime…

Giovanna, che ha seguito il mio dramma senza una parola, ha il volto solcato da un fiume di lacrime.

“Andiamo.” Dice con un filo di voce.

“Aspetta, voglio salutare Manolo.”

“No, andiamo.”

“Manolo, Manolo.” Il bambino si gira, gli faccio cenno con la mano e lui muove verso di me, ma improvvisamente si ferma.

Ho visto la mano della Provvidenza guidare quella di Manolo tra le macerie e afferrare una scatola anche questa intera. È di una marca di biscotti italiani per bambini. Manolo la stringe al petto, forse ha paura che qualcuno allunghi la mano e gliela strappi.

Sono attonito, muto, e mi accorgo che sto mentalmente recitando… Padre nostro che sei nei Cieli, dacci oggi (dà loro) il pane quotidiano…

Manolo, con la sua busta di plastica e la scatola stretta al petto lascia la sua zona di ricerca e si allontana…

Mi sveglio dal torpore in cui sono caduto e lo seguo perché ho bisogno di abbracciarlo, di accarezzare l’incolta chioma di capelli ricci, ma Manolo schizza via veloce come un lampo.

Ecco che ora si ferma attratto da un’altra scatola. Questo fatto mi dà il tempo per raggiungerlo, penso. Lo chiamo: “Manolo, Manolo, senti, voglio parlarti, aspettami…”

Giovanna che è presente a se stessa più di quanto non lo sia io, raccoglie la macchina fotografica e mi segue senza proferire parola.

Ecco Manolo con la sua nuova scatola di cartone, ma questa volta vuota. Su un lato vi è disegnata una macchina rossa da corsa. Ne ritaglia con molta perizia i contorni. Poi, con questa poggiata sul petto e tenuta con ambo le manine, scorrazza tra le macerie rombando e suonando, dimentico delle mele e dei biscotti che ha posato accanto ai miei piedi.

Lo osservo estasiato e felice. Penso che il mio pietismo così come l’ho sentito non serva a nulla. Non ho nessun diritto né di abbracciarlo né di carezzare la sua chioma riccia. Ho solo il dovere di fare qualcosa perché Manolo possa vivere sereno e giocare come tutti gli altri bambini, almeno con una macchinina vera.

Fare qualcosa, certo. Rinunziare alle vacanze del prossimo anno, per esempio, perché Manolo non abbia più a mangiare mele guaste e scatolette scadute.

Il pietismo non ha mai riempito le pance vuote. Serve l’azione. Bisogna dare. Essere missionari. Ecco la proposta.


Copyright © Gabriele Ortu - Tutti i diritti riservati.
www.gabrieleortu.it – Copyright © Gabriele Ortu, tutti i diritti riservati


Aggiornamento pagina: 10/05/2008
Copyright © 2007-2024 Gabriele Ortu

Menù rapido informazioni