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Domenica, 24 Novembre 2024

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Zia Mariedda Tzachitzachi (*)

Zia Mariedda Tzachitzachi, così la chiamavano in paese tutti i ragazzi. Per gli anziani, però, era la figlia di Mesupetza.

Era una donna molto bassa. Camminava china, sembrava un chiodo storto; aveva i baffi come un uomo e di uomo aveva anche la voce. Viveva sola.

Sia ziu Mesupetza che zia Mariedda sono morti quand’ero bambino. Ma di entrambi mi è rimasto il ricordo.

Mesupetza. Questo era il soprannome di signor Antonio Piredda, contadino carrolante. Era l’ultimo dei carrolanti, in quanto non era tenuto in considerazione alcuna dagli altri. Per questo motivo venne soprannominato Mesupetza che significa di poco conto, che vale poco.

Il suo giogo era formato da due vacche piccole e magrissime alle quali si potevano contare le costole ad una ad una, tanto erano magre.

A lui il giogo serviva per accudire alle piccole cose di casa sua. Arava la sua piccola vigna, portava la legna per cuocere il pane, lavorava l’orticello.

Nessuno lo comandava mai per fare qualche lavoro in quanto uomo di poca forza.

Quest’uomo era anche proprietario di una capra domestica senza corna e di due caprette.

Una sera né la capra né le due caprette rientrarono a casa. Il Signor Antonio si mise alla ricerca ma degli animali nemmeno l’ombra. Ha seguito la traccia fino a Gennaentu e qui ha capito che ormai non c’era nulla da fare. Rubate!

A chi gli domandava delle capre rispondeva: ”Rubate! Rubate! Cosa volete rubano solo a chi ne ha di bestiame!”

Queste parole le pronunziava come fosse stato un grande proprietario di bestiame. Poverino. Aveva solo quei tre capi, ma per lui erano un gregge.

Il signor Antonio era rimasto vedovo quando nacque la sua unica figlia, Mariedda.

La moglie, la signora Emanuela, morì dando alla luce questa ragazza.

Una donna del vicinato, che aveva partorito nello stesso giorno della signora Emanuela, si incaricò di allevare anche la piccola Mariedda. Per questo motivo Mariedda la chiamava “Mamma de latti” e la rispettava come fosse sua madre.

La signora Filomena, così era chiamata la donna del vicinato, si era affezionata a questa creatura come se fosse sua figlia. L’ha allevata e cresciuta in casa propria assieme ai suoi figli.

Mariedda s’era poi sposata con un figlio della signora Filomena, ma il suo sposo, Raffaele, non lo godette. Morì di un male misterioso appena due mesi dopo il matrimonio.

La malasorte si è accanita contro Mariedda dal primo giorno che vide la luce, poverina. Mai un giorno di felicità, povera ragazza. La sua vita di infelice la si poteva leggere nei suoi occhi. Due occhi neri e tristi che non ridevano mai. Il suo volto sembrava un libro di penitenze. Era tutta rughe, assomigliava al volto della “Madre dell’ucciso” di Francesco Ciusa. Tutte le volte che mi capita di osservare questo capolavoro mi viene in mente zia Mariedda. Ha una forte rassomiglianza. Chi lo sa. Forse ha fatto da modella al Ciusa. Non è detto che non sia così.

Zia Mariedda era una donna di poche parole. Parlava più con gli occhi che con la lingua. Ti faceva capire più cose quando taceva che quando ti parlava. Ti ascoltava guardandoti fisso negli occhi e rispondeva sempre con tono di voce bassa e molto lentamente. Sembrava che ogni parola la costruisse al momento.

E sempre a voce bassa temendo di offenderti o di darti dispiacere. Parlava con tutti e tutti salutava e sempre per prima. Il suo saluto, era sempre lo stesso: ”Vai con Dio”, quando ti incontrava, e “Rimani con la Madre”, quando si allontanava.

La ricordo così questa donna tutta vestita di nero. Sempre con lo stesso vestito sia che andasse in chiesa sia che andasse a lavorare.

Portava il lutto da quando le era morto il marito. Gonna nera, corpetto nero, e nero era anche il fazzoletto che portava in testa e lo scialle di Tibet tinto e che aveva sempre indosso estate e inverno. E nera era anche la vita di questa donna sfortunata tutta deformata dal lavoro. La sua vita l’ha trascorsa più stando al monte che in paese.

D’inverno andava a fare legna e in primavera a raccogliere foglie di digitale. All’alba era già in campagna e della campagna conosceva tutti i siti acquitrinosi e le siepi ove cresceva la digitale.

Si aggirava curva, come un’ombra, (nelle siepi) ed era il tormento dei cacciatori del posto.

 

***

 

Zia Mariedda era l’unica persona del paese che fosse in corrispondenza con la Ditta Carlo Erba di Milano.

Le lettere ed i telegrammi che riceveva li faceva leggere ad altri perché lei non era mai andata a scuola. La sua scuola è sempre stata la campagna. Ha speso la sua vita raccogliendo erbe per la Carlo Erba. Nessuno sa quanti soldi ha guadagnato la Carlo Erba con il lavoro di zia Mariedda. Un saccone di digitale ogni giorno. Non rientrava a casa mai senza prima aver riempito il sacco. Aveva una stalla piena di sacchi di quest’erba.

I soldi li riceveva sempre a fine della stagione della raccolta della digitale.

La Ditta Carlo Erba le mandava i sacchi sempre prima del periodo della raccolta ma i soldi solamente dopo che la merce arrivava a Milano.

Perciò i digiuni di zia Mariedda erano assai di più di quelli che impone la nostra religione! E meno male che questa donna aveva un cuore sano, altrimenti per comprare poche gocce della medicina fatta con l’erba da lei stessa raccolta, non le sarebbero bastati i soldi ricevuti per una intera annata.

Ricordo di averla incontrata, una volta, in un terreno confinante con il nostro mentre era intenta alla raccolta di quest’erba.

“Vedi, figlio mio, è tutta una vita che faccio questo lavoro e sono vecchia e stanca, ma se non lo faccio, quanta gente può morire per colpa mia?” Mi disse. Povera donna. Si faceva carico di colpe che non aveva.

“Non si fa tutto per i soldi. Bisogna pensare anche a chi sta male. Lo sai ragazzo, che con quest’erba fanno la medicina per guarire i malati di cuore?”

“No, signora Mariedda, non lo so.”

“Come non lo sai? Ma tu non sei il figlio di … quello che sta studiando per fare il prete?”

“Sì…” Le risposi solamente. Volevo che parlasse lei. Era la prima volta che la sentivo parlare ed ero interessato a capire i suoi discorsi. Infatti, non essendole piaciuta la mia risposta, ha continuato:

“Come non lo sai???”

Ha pronunziato queste parole con una voce piena di interrogativi come per dire: ma cos’è che si studia a scuola se non sapete nemmeno che con la digitale si fa la digitalina? Ma lo sanno che con questa medicina si guariscono le malattie del cuore?

Un grande sospetto ha attraversato la sua mente. Non riusciva a capire come mai uno che studiava non sapesse una cosa di così grande utilità per la vita umana. E infatti mi ha chiesto: “Ma dimmi, ragazzo, allora cos’è che vi fanno studiare?”

“Latino … e …” Stavo per elencare le altre materie, quando m’interruppe.

“Latino,… e quali malattie si curano con questo?”

“Nessuna. Non è un’erba. È una antica lingua che oggi non si parla più.”

“Che perdita di tempo, peccato. Vi chiederà conto il Signore.”

“Ha ragione zia Mariedda” Le risposi dandole un bel mazzo di foglie di digitale che nel mentre avevo raccolto.

“Dimmi, in latino come viene chiamata la digitale?”

“Digitalis purpurea, zia Mariedda.”

“Oi, oi, figlio mio. Scommetto che con un nome del genere nemmeno la medicina è buona. Non assomiglia per nulla a tzachitzachi, però questa parola ricordo che l’aveva scritta la Carlo Erba e il prete mi aveva detto che voleva dire proprio tzachitzachi. Sì, sì, proprio così. Forse è meglio studiare. Il sapere serve sempre a qualcosa. Studia, studia, figlio mio, e cerca di aiutare i poveri ché siamo i più bisognosi in tutto… Quando dirai messa, io non ci sarò più, ma tu ricordati di zia Mariedda Tzachitzachi…”

Da allora non vidi più questa donna, ma sono sicuro che Dio, in Paradiso, l’avrà messa tra i suoi fiori eterni.

(*) Traduzione in italiano, dell’autore, dal testo originale in sardo.


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Aggiornamento pagina: 26/04/2008
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