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Gabriele Ortu
poesie e altri scritti
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L’omino in costume
“Eh, frucooones e palias de fooorru.” Gridò l’omino allungando la voce per dar tempo alle persone, ancora intontite dal sonno, di discernere bene il suo messaggio.
Si era fermato proprio nei pressi della prima casa che allora incontrava chi penetrava in paese a piedi dalla strada detta “Sa Pinna”.
Più che strada era un budello. Una volta sicuramente sentiero di capre. E poi allargato per il passaggio di asini e cavalli con i loro carichi.
Assomigliava piuttosto ad un cordone ombelicale. In essa scorreva la maggior parte del traffico di persone e bestiame che alimentava il paese.
Qui passavano, tutti i giorni dell’anno, mattina e sera, le capre “mannalizas”. Servivano per assicurare il latte alle famiglie.
Le capre uscivano da questo budello, in ordine, a due a due, per separarsi appena giunte in cima alla salita che introduceva nel paese. Qui ogni capra prendeva la strada che la portava a “casa propria”. Questi animali, che durante tutto il giorno avevano pascolato in gruppo sotto la custodia di un capraio, la sera, giunte in paese, alla fine della salita de “Sa Pinna” si dividevano. Trovavano da sole la strada che le conduceva fino all’abitazione del proprietario. Ognuna di esse aveva il suo campanaccio e ognuno di questi aveva la sua nota. Il capraio, oltre che dal nome, poteva distinguerle anche dal suono di questa campanella. Quasi tutte le famiglie avevano una capra “mannaliza” per il latte fresco, in paese. La nostra si chiamava Maltesa, dava più di due litri di latte al giorno. Parlava con gli occhi, questa capra. Quando la chiamavo, per nome, si girava e mi mostrava due grandi occhi come per dire: “Cosa vuoi?” Aveva uno sguardo direi timido, implorante, sottomesso, come uno che chiede aiuto. Mi faceva pena. Era docile e sottomessa, quasi implorava per essere munta. La mamma diceva sempre: “Quest’animale è come un cristiano. Non si lamenta mai, sembra quasi che ti capisca, che prevenga il tuo pensiero. Mai visto un animale così docile.”
“Eh, frucooones e palias de fooorru.” Gridò ancora l’omino, mentre Maltesa, la nostra capra domestica, si apprestava a lasciare il paese scomparendo nel cordone ombelicale per andare ad alimentarsi, nei pascoli della campagna circostante. Da tutte le case del paese, alle prime luci, le capre muovevano e si davano appuntamento lungo le prime siepi di rovi intorno ai terreni appena fuori dall’abitato. La voce nota del capraio tutti i giorni le invitava a proseguire, per pascoli più ricchi ed esse docilmente gli ubbidivano.
Il capraio era un uomo anziano, un tempo assai ricco e facoltoso, ridotto in miseria dai ladri di bestiame. Aveva avuto più di ottocento capre, si diceva, e anche tre servi pastori contemporaneamente. Era stato sposato ma non aveva avuto figli, e questo, forse, fu la causa delle sue miserie. Da giovane fu temuto e riverito, ma con l’avanzare dell’età, molti ne avevano… approfittato.
Si trovò così, un poco alla volta, senza bestiame.
Le famiglie gli avevano affidato le capre “mannalizas” che l’uomo governava con perizia e con amore: mai una lamentela da parte di nessuno!.
Al grido del venditore di pale, la capra si spaventò e con un balzo scomparve nel budello di “Sa Pinna”.
Altre capre fecero lo stesso.
Si era appena fatto giorno. Solo in parte il sole illuminava la vetta del monte “Sa Scova”.
Era primavera inoltrata. La giornata prometteva un bel sole.
L’omino, per essere giunto in paese così presto, deve aver viaggiato per buona parte della notte. Mi chiesi, mentre egli, stanco, aiutato dalla sorella, deponeva il suo carico di pertiche e pale e la sua bisaccia vuota, piena soltanto di fame.
Li vedevo spesso, in paese, questi due venditori di attrezzi per il forno. Erano di statura bassissima, quasi nani e venivano da un paese vicino. Lui vestiva il costume del suo paese: calzoni di tela bianca, almeno così dovevano essere in origine, ma quelli che indossava erano tutt’altro che bianchi. Dello stesso colore erano pure il colletto ed i polsini della camicia, le uniche parti visibili. Il resto era coperto da una vecchia e maleodorante “besteepedde”.
Ai piedi, più che scarpe, aveva qualcosa fatta di stracci che assomigliava a un sandalo, ma tale non era.
Dagli stracci spuntavano alcune dita. Le falangi non si distinguevano dalle unghie, avevano entrambe lo stesso colore nero, segno evidente della mancanza di pulizia.
La sua “berrita longa”, buttata all’indietro, com’era usanza allora, era lisa e lucente come il sacco “incerato” dei pastori, tanto era coperta di untume e sporca.
Quando l’omino lanciò improvviso il suo urlo (più che per urlo poteva essere scambiato per un lamento) per avvertire del suo arrivo in paese e spaventò la mia capra, ebbi un senso di stizza, quasi di odio, poi il suo stato miserando mi mosse a compassione e mi pentii di aver provato quel sentimento.
Gli domandai, allora, quanto costasse una pertica per il forno, ma non mi rispose subito. Forse credeva che volessi prenderlo in giro. Rimase in silenzio per un po’, e, dopo avermi osservato a lungo: “Dipende da quella che si sceglie.” Mi disse.
A me, che non serviva nessuna pertica per il forno, ma volevo soltanto riparare al fatto di aver provato quel sentimento di “quasi odio” per aver spaventato la mia capra, la scelta poco importava e, indicando quella che mi sembrava la peggiore, dissi: “Questa.”
“Basta una focaccia.” Rispose l’omino guardandomi con due occhi cisposi, piccoli e neri come il suo corpetto di orbace.
La sorella sfilò dal fascio di pertiche con molta attenzione quella che avevo indicato per consegnarmela.
Le feci capire che l’avrei presa dopo aver consegnato la focaccia.
“Se vuoi, puoi prenderla.” Mi disse la donna, anch’essa con gli occhi cisposi e spenti. Aggiunse poi timidamente: “Se ci porti anche un pezzetto di lardo ti do questa che è molto più dritta e tua madre sarà più contenta.”
“Va bene. Vado a prendere la focaccia e il lardo. Aspettatemi qui”. Fu la mia risposta.
La donna raccolse la sua gonna nera e facendone una specie di cuscino, ci si sedette sopra. Cominciò poi a disfare la crocchia dei capelli forse per darsi un contegno più vivo o perché intendeva peggiorare il suo aspetto per muovere a compassione le donne per acquistare la loro merce. Tirò pure da una tasca un pezzo di tela che fungeva da fazzoletto, ci sputò sopra e se lo passò intorno agli occhi. Mi accorsi solo allora che la donna era scalza. Non aveva ai piedi nemmeno stracci. Provai una tremenda sofferenza. Rimasi come inchiodato al terreno. Non riuscivo a muovermi. Non avevo mai visto una persona adulta scalza prima di allora.
L’omino, invece, era intento a picchiare sull’acciarino per accendere l’esca. Dalla lunga e incolta barba spuntava un pezzetto di sigaro toscano. Li guardai entrambi prima di allontanarmi ed ebbi l’impressione che dovevano essere gemelli. Non li avevo ancora osservati tanto da vicino. M’accorsi così che entrambi avevano gli occhi neri, la fronte bassa, lo stesso naso a patata, gli zigomi sporgenti, le orecchie a ventola. Sembravano assai vecchi eppure avevano ancora i capelli neri e nera era la barba dell’uomo. Ne dedussi che le sofferenze della loro esistenza dovevano averli resi così apparentemente vecchi.
“Beh, allora, la devi prendere o no la pertica? Cosa aspetti? Ci vuoi prendere in giro?” Disse la donna, che vedendomi così imbambolato, aveva dubitato della mia richiesta di acquisto.
Non aveva tutti i torti, povera donna, di dubitare dei ragazzi… Sapeva quanto erano discoli i ragazzi del paese. Per loro, che dovevano girare in tutte le strade, era un tormento in quanto, i ragazzi, appena questi due poveracci venivano da noi a vendere la loro merce, si riunivano a frotte e correvano loro dietro gridando: “Tiu Fé, tiu Fé, pinzillì Maria Teré!”.
I più scalmanati, a volte, tiravano le pertiche che l’omino aveva sulle spalle col rischio anche di farlo cadere in malo modo.
Forse si stavano riposando, per farsi forza, quando li lasciai per andare a prendere la focaccia ed il lardo.
Torno subito, abito qui vicino, li rassicurai.
Trovai la mamma che sfornava il pane. Presi una focaccia e corsi in cucina a cercare il lardo. Poi di nascosto ne presi un’altra, la infilai sotto la giacca, e uscii dicendo alla mamma: “Torno subito!”
Consegnai alla donna le due focacce, e, senza una parola, scappai.
“La pertica, ragazzo.” Mi gridò la donna, mentre l’uomo continuava a dare colpi all’acciarino per accendere la sua esca. Non mi girai e scomparii.
Il sole stava ormai dilagando nelle stradine del paese ed i ragazzi si apprestavano per andare a scuola. Qualcuno aveva notato i venditori di “frucones e palias de forru” e aveva organizzato un gruppetto per la solita, stupida tiritera che mandava in bestia i due poveracci.
“I carabinieri!” Gridai, ed il gruppo, con un dietrofront, si diresse veloce verso la scuola.
Per quel giorno, tiu Fé e tia Maria Teresa, credo che questi fossero i loro nomi, e, con molta probabilità, l’omino si chiamava Fedele, ebbero vita facile e vendettero le loro pale e le loro pertiche con tranquillità.
Nessuno aveva gridato loro, quel giorno : “Tiu Fé, tiu Fé, pinzillì Maria Teré”.
Ed io provai una grande gioia per averli aiutati e pregai il Signore per loro, quel giorno e anche i giorni successivi.