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Gabriele Ortu
poesie e altri scritti
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Vita di collegio
Avevo sicuramente tredici anni, giorno più giorno meno, quando, quel pomeriggio, davanti al portone di ingresso della Chiesa di Nostra Signora di Betlemme, in Sassari, il mio sguardo incontrò quello di una fanciulla sconosciuta, mai vista prima.
Aveva press’a poco la mia età. I nostri sguardi si incontrarono per la prima volta e si fusero insieme, senza un motto, senza particolari sentimenti, senza che nessuno dei due avesse cercato l’incontro. Fu un lampo di luce meravigliosa. Uno stato di benessere che mai più ho provato nella mia esistenza. Qualcosa di indefinibile e di inspiegabile. Forse capita una sola volta nella vita. Non risero le labbra, ma gli occhi. Forse fu un incontro di due anime pure come due brillanti che si scambiarono i loro riflessi. Forse la stessa Purezza si era vista riflessa nei nostri occhi e si era compiaciuta del suo stato e ne fu felice.
Il solo ricordo di quell’attimo mi dà, ancor oggi, una sensazione di pace e di benessere, ma che nulla ha a che vedere con l’emozione di allora. Non so cosa fosse, né ho le parole per spiegare quella sensazione. Forse era solo una visione mistica. So che il mio corpo fu come sollevato dalle miserie terrene e si fece leggero e quasi impalpabile e visse per alcuni secondi una dimensione diversa da quella terrena. Uno stato di imponderabilità mai più provato dopo.
Chi fosse e come si chiamasse questa ragazza, non lo so, sono però certo che anch’essa ha provato le stesse sensazioni. Da dove questa certezza mi venga è, anche per me, un mistero, ma sento che è così, che fu così.
La ragazza faceva parte di un gruppo di fanciulle di un Collegio situato nella parte alta della città. Io invece del Collegio della Provvidenza, addossato alla chiesa dei Cappuccini. Avevamo l’ingresso proprio nel piazzale della chiesa.
Era il 1947. Un anno molto importante per la mia formazione. Ricordo con molto piacere quelle giornate piene fino all’inverosimile. Non un minuto del tempo veniva disperso. La mattina aiutavo il sarto (un uomo sulla trentina, molto elegante, era sordomuto) ad accudire e a mungere l’unica vacca che provvedeva il latte per il Collegio. Questo avveniva prima ancora dell’inizio delle operazioni quotidiane, quando ancora gli altri ragazzi dormivano. Potermi alzare prima degli altri lo ritenevo un privilegio. Chissà perché mi faceva sentire importante. Mi sentivo scelto. Ricordo che le prime volte avevo paura di avvicinare l’animale, ma poi, vista la sua docilità ed il modo come il sordomuto la trattava, mi feci coraggio e ben presto instaurai una “amicizia” con la vacca tant’è che era più docile con me di quanto non lo fosse con il sordomuto. Sarà stato perché la mia voce era molto più sonora di quella del sarto, che anche se avesse voluto, poverino, non sarebbe riuscito. Dalla sua bocca non uscivano parole, ma solo dei suoni incomprensibili. I primi giorni non lo capivo e lui si arrabbiava. Credeva che glielo facessi di proposito, a non capire, ma dopo alcuni giorni il problema fu risolto con gioia del muto e soprattutto mia che finalmente riuscivo a decifrare i suoni che lui emetteva.
Con il muto ho imparato a mungere e a far colazione con il latte appena munto, caldo e spumoso.
Finita questa operazione dovevo recarmi nel laboratorio di falegnameria di mastro Giuseppino, il mio “mastru d’ascia”, come si dice a Sassari.
Mastro Giuseppino era insuperabile nel suo mestiere. Si diceva che fosse un nobile con il pallino dell’intaglio e si fosse ritirato nel Collegio. Lavorava gratuitamente. Il Collegio gli dava vitto e alloggio, lui provvedeva alla manutenzione dei mobili e degli immobili.
I suoi lavori erano perfetti. Un incastro a coda di rondine era praticamente invisibile. Faceva combaciare le venature del legno in modo così perfetto che era praticamente impossibile capire dove erano state fatte le giunture.
Sotto i colpi della pialla grande, qualsiasi pezzo diventava lucido. I riccioli di legno che ad ogni colpo uscivano, sembravano dei fogli di carta, ci si poteva scrivere benissimo. Mastro Giuseppino era gelosissimo dei suoi attrezzi e non permetteva a nessuno di usarli.
Ricordo ancor oggi con nostalgia il mio primo lavoro per l’asilo del Collegio. Veramente l’asilo non serviva il Collegio, ma il rione Cappuccini. Era staccato dal corpo principale della struttura anche se vi si poteva accedere da una porta interna chiusa a chiave per dar modo alle suore addette all’asilo di entrare ed uscire dalla parte interna.
Mentre preparavo questo lavoro per i bambini dell’asilo, che mastro Giuseppino mi aveva ordinato (una specie di prova d’arte per conoscere il mio grado di preparazione), mi trovai in difficoltà nel piallare una tavoletta in quanto l’attrezzo non essendo ben affilato faceva scheggiare il legno.
“Toh! Prendi questa”, mi disse mastro Giuseppino, porgendomi la sua pialla.
Rimasi per un attimo sorpreso. Non capivo infatti se egli volesse burlarsi di me, per qualcosa che non riuscivo a capire, o, se facesse sul serio.
“Prendi questa -insistette- con la tua non riuscirai mai a fare qualcosa di veramente artistico.” Sì, mi disse proprio così, usò l’aggettivo “artistico”.
La mia iniziale sorpresa ora si tramuta in meraviglia e stupore. Mastro Giuseppino mi ha accordato tutta la sua fiducia. Ha permesso ad un allievo di usare un suo attrezzo. Per un estraneo il gesto sarebbe passato inosservato. Un attrezzo vale l’altro. Ma per chi con mastro Giuseppino aveva trascorso quasi un anno, questo gesto significava che l’allievo aveva fatto veramente molto progresso e meritava tutta la sua stima. Non era cosa di poco conto, per chi conosceva questo grande artista, quello che aveva deciso.
Mastro Giuseppino non ti diceva mai “bravo”. La frase che pronunziava con maggiore frequenza era: “Ci vuole ancora molto olio di gomito, ragazzo!”
Forse tutta l’importanza di quel gesto lo capii solo dopo circa quindici anni, quando, ormai non più ragazzo, ritornai a Sassari, da Sergente dell’esercito e andai a visitare il… mio Collegio e l’asilo.
Vi trovai la stessa suora di allora, suor Caterina, che, con mia grande sorpresa, mi mostrò il carrettino che avevo costruito quindici anni prima. Aveva un ripiano tutto per sé il mio carrettino, in un armadio a vetri e faceva bella mostra nella sala-segreteria della suora.
Per un attimo mi sono sentito grande anch’io. Mi sono sentito un… “artista”!
Il mio carrettino custodito come un cimelio, in un armadio a vetri chiuso a chiave.
Ma subito mi venne in mente il gesto nobile di mastro Giuseppino: “Toh! Prendi questa”. Immediatamente chiesi notizie di lui e suor Caterina mi rispose che era mancato da diversi anni.
Chissà perché lo immagino falegname anche nell’aldilà. Falegname-artista, naturalmente, nella bottega di San Giuseppe. Non può essere altrimenti. Avrà anche la sua pipa ed il suo cappello e vestirà in modo impeccabile di sicuro. Non riesco ad immaginarlo in una situazione diversa.
Chissà se il mio carrettino ci sarà ancora, mentre mi abbandono a questi ricordi…
Forse non ci sarà più neppure l’asilo in viale Cappuccini, a Sassari.
Ecco come ricordo le mie giornate sassaresi: la mattina era dedicata alla vacca e alla falegnameria. La sera poi era tutta per la musica. Il Collegio aveva una sua banda musicale. Era diretta da un maestro napoletano del quale non ricordo più il nome. Mentre ho molto bene presente la sua voce da napoletano. Fu suor Caterina ad accompagnarmi da lui, la prima volta.
Il maestro mi squadrò bene poi mi disse: “Conosci la musica?”
“No!” Gli risposi.
“Bene, imparerai presto a conoscerla”. Fu la sua risposta e aggiunse: “Al tuo fisico si addice la tromba. Sai ci vogliono polmoni per suonarla. Tieni… questo è il bocchino. Devi soffiarci dentro in questo modo cercando di farci delle pernacchie. Devi farlo tutti i momenti in cui ti è possibile, finché le labbra si adattano al bocchino”.
Prese poi un foglio e sulla parte alta del pentagramma indicò nervosamente sugli spazi quattro note e vi scrisse il loro nome: fa, la, do, mi. Altrettanto fece nella parte bassa del foglio, lasciando tutta la parte centrale in bianco, e scrisse, ma questa volta sul rigo: mi, sol, si, re, fa. Poi mi disse, con il suo fare nervoso e sbrigativo, mostrandomi una specie di disegnino che pose prima delle note che aveva scritto, sia in alto che in basso: “Questa è la chiave di sol. Capito, ragazzo? Come ti chiami?
“Gabriele”.
“Bene, Gabriele. Ora passa in sala musica per la lezione. Intanto per domani devi saper riconoscere a memoria tutte le note del foglio, intesi?”
Fu il mio primo approccio con la musica.
Alle note sugli spazi e sui righi seguirono crome, biscrome, pause, terzine, scale di varie tonalità e interminate sere di solfeggio con le mani. Quattro quarti. Due in battere e due in levare. Do, oo/ oo, oo. Devo aver pronunziato più “o” in quel periodo che nel resto della mia vita. Poi arrivarono i solfeggi con la tromba in una aula piena di ragazzi che solfeggiavano ognuno con il proprio strumento. Un mondo di suoni assordante e confuso, ma ciascuno di noi riusciva a sentire solo la voce del proprio strumento. Le note rimbalzavano sui vetri e le armoniche si disperdevano nell’aria e si spiaccicavano sui muri fino ad annullarsi. Chissà poi se veramente si annullavano. A volte, ancora oggi, mi sembra di sentire quel groviglio di note e di stonature della sala solfeggi vagare nell’aria… Il maestro in cattedra ascoltava. Ascoltava tutti e ci seguiva, mentre era intento a preparare spartiti.
Come facesse a seguirci tutti per me è rimasto sempre un mistero. Al primo errore che sentiva volavano improperi in napoletano, al secondo volava la bacchetta e faceva sempre centro, o quasi.
Ricordo con simpatia questo maestro. Avrà avuto trentacinque o quarant’anni, allora. Era un vulcano. Aveva la musica in corpo. Per ogni nostra stonatura, si avvertiva, nel suo sguardo, una smorfia di sofferenza. Pareva che lo avessero punto improvvisamente con uno spillo.
Quando le prove andavano bene dall’inizio alla fine, egli andava quasi in visibilio ed il suo volto si illuminava di una tonalità di luce che solo la musica può dare. Impossibile da descrivere.
Dopo circa un anno di prove, mi disse: “Domani dovrai suonare al posto di Gianuario. Ha la febbre alta e non può, quindi dovrai sostituirlo.” E mi diede una pacca sulle spalle. Sento ancora la dolcezza di quel peso e la paura che quelle parole mi misero addosso: “Domani dovrai suonare…” Intendeva dire in pubblico e per la prima volta nella banda, ma non lo disse. Mi guardò fisso negli occhi per capire la mia reazione, per cercare un segno di sicurezza. Glielo diedi con un sorriso di approvazione e di orgoglio. Gli bastò. Non disse altro.
Per me era il battesimo musicale. Un sogno che diventava realtà. Una notte insonne seguì alle parole del maestro. E un lungo sogno ad occhi aperti si è srotolato per tutta la notte. E leggevo le note sullo spartito del cielo stellato attraverso la finestra senza scurini del dormitorio. Una notte in bianco. E venne il mattino ed il giorno del mio battesimo musicale.
La sera, in sala musica, alla fine delle prove, il maestro mi diede ancora una pacca sulle spalle e mi sorrise. Intuì allora che doveva essere andata bene.